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Estratti stampa - Martah

Roberto Cossu
UNA GALLERIA CUPA E BAROCCA
GENIO E SREGOLATEZZA NELLA MESSINSCENA DI "MARTA H" ALLE SALINE

"Chiedo al teatro uno sfinimento", dice Valère Novarina, nume della scena contemporanea. "Il teatro è stupro", dice Giorgio Albertazzi. Concetti apocalittici ma simbolici: sottintendono che il teatro è la cerimonia della lacerazione. Una lama alla gola degli attori e degli spettatori. Lo spettacolo "non è un libro, un quadro, un discorso: è una durata, una dura prova dei sensi". Pierfranco Zappareddu conosce il concetto. E lo applica alla lettera. Dagli attori pretende fedeltà assoluta, dagli spettatori una fedeltà che sfiora il sacrificio. Cosa dà in cambio? Bagliori e banalità, colpi di genio e puerilità, fantasia e furbizia. Con la spensieratezza viperina del fanciullo e del vecchio. E con un avvertimento non pronunciato: prendere o lasciare. La platea è il letto del fachiro, se il piacere non arriva si può scegliere qualcosa di più morbido. Se resistete, Zappareddu vi prende per mano e vi porta a spasso in una galleria cupa e barocca: in quattro-ore-quattro vi mostra un estratto teatrale degli ultimi trent'anni. Un riassunto deformato oniricamente, frantumato in una lunga e ambigua visione. Gli elenchi aiutano: Grotowski, Living, Odin, Kemp, Bausch. E poi Beckett, Eliot, Fitzgerald, Pound, Masters, Gogol, Dostoevskij. E ancora Diamanda Gàlas, Mertens, Julio Iglesias, Mina. Alla rinfusa e con molte dimenticanze. Note, parole, immagini, spesso a ritmo subliminale: infilate tutto nella "lanterna magica" e avrete Marta H, spettacolo conclusivo della rassegna Akròama alle Saline, in prima nazionale sabato scorso, che può anche diventare un interessante tema di conversazione per i cenacoli teatrali sardi. Passato e presente, in attesa di un futuro indecifrabile. Ma cosa racconta Zappareddu? Non racconta. "E' un incubo", dice. Molto banale: tutto è incubo nel teatro contemporaneo. Psicociarle? No. Un giardino manieristico? Anche. Ma anche altro. In pratica, viaggiate insieme a un gruppo di attori che preparano una rappresentazione. Il filo è tenue, si sfilaccia subito. Il manipolo in scena entra ed esce dal teatro, dalla letteratura, dalla danza, dalla musica, e incontra tutto ciò di cui si parla nell'arte: amore, passione, crudeltà, diffidenza, solitudine, rimpianti, delitti, vendette. Trovate i morti di Spoon River e li ritrovate con le braccia in alto, come se cercassero di fendere le tombe e riacciuffare i raggi del sole. Trovate un Cristo, o semplicemente un uomo, o magari un teatrante che ha scambiato la realtà con la finzione, caricarsi sulle spalle una panca e salire su una scala. C'è un Golgota quotidiano, una deposizione laica che non è solo del cielo. Scena magistrale. E intanto gli attori assomigliano alla folla dell'Ingresso di Cristo a Bruxelles di Ensor o ai clienti di un fumoso interno fassbinderiano. Recitano e vivono, si spossano in tanghi che vorrebbero fondere i corpi. E aspettano il regista. Che tarda e si firma Godot. In compenso arriva il "professionista" Bernard Minetti, per ricordare che "al pubblico non arriva un messaggio chiaro". L'immaginifico si gonfia, sulle note di C'era una volta in America moltiplica il finale del film di Leone: Elizabeth McGovern cancella le creme dal viso. Ci vorrebbe un altro elenco, per descrivere questo "viaggio al termine della notte" Celine non è un incontro casuale). E magari il diario dei ricordi (illusioni? delusioni?) del narcisista Zappareddu. E pure un codice per capire come mai a un tratto lo spettacolo viri bruscamente sull'ironia, e sulla farsa. Affiora lo stupidario televisivo, ciò che la gente cerca (o subisce) affannosamente quando il "teatro diventa noioso". Si sbaracca il serio con un'esilarante parodia di Besame mucho, si espone bigiotteria, avanspettacolo: troppo esplicito, "moralistico", scontato. Cercasi una chiave anche per capire il terzo stadio dello spettacolo: un'ossessiva ripetizione di scene costruite sulle musiche (sempre bellissime). Lo sfinimento della danza, il calco con poche varianti del gioco fatale erotismo-morte. Un gioco che percorre l'intera messa in scena, omaggio interiore alla Spagna e a quanto di inquietante, scabroso e sensuale sa diffondere quel paese. Esordiente dopo un ventennio, Zappareddu si rivela insomma seducente e sconcertante regista. Tira le corde di un gruppo di attori che non falliscono, in testa un'eccellente Rosalba Piras. E offre un caso di bulimia teatrale. Non inventa niente, trasporta sul palco tutto ciò che è stato, dal terzo teatro in poi. Ma poiché è un talento, ricava dalle macerie una manciata di stelle rare nel panorama sardo. E poiché è sregolatezza, alla fine fa di tutto per demolire la galleria. Propone una sinfonia in tre tempi, struggente e poi insopportabile, con sequenze che andrebbero bene in un programma notturno di soccorso erotico. E si continua oltre la porta del teatro, con prestiti dai Magazzini o dalla Fura dels Baus: una macchina e un paio di cadaveri. "Bonne Nuit", augura l'attrice. Buonanotte, sperando che un giorno, per usare ancora le parole di Novarina, il pubblico da "stuprare" non sia costretto a "lasciare il corpo appeso in guardaroba".
L'UNIONE SARDA, 28 aprile 1998

Roberto Cossu
RITORNO DAL SILENZIO

[…] Quanto c'è di autobiografico in questo lavoro?
"Ci sono sofferenze, incubi personali. A cui si sono aggiunti i tic, le nevrosi o i sogni, le aspirazioni di questi ragazzi. Lo spettacolo non è sorto solo dal cervello, ma anche dai capelli bianchi."
Il regista che non arriva mai è Zappareddu?
"E' un riferimento a Wenders e allo "Stato delle cose". Il regista non arriva, forse muore nell'auto."
Perché per 20 anni è rimasto fuori dal gioco?
"Mi riesce difficile fare confessioni. Ma urge una premessa. Mi ha colpito molto il gesto di Akròama e di Lelio Lecis: invitarmi a costruire nuovamente uno spettacolo e farmi uscire dal dimenticatoio. Mi hanno proposto una sfida, in questo ambiente non sono cose che avvengono frequentemente. Il lungo silenzio? Non è dovuto a una crisi artistica. Forse avevo bisogno di altre esperienze, non essere un teatrante militante. Mi sono fatto assorbire dalla presentazione di grandi eventi, ma non era il mio lavoro. Non ci ho mai saputo fare con i soldi, con i finanziamenti, questo ormai è noto. Però ci credevo. Se non altro mi ha consentito di accostarmi ad altri maestri. Sono partito da un'esperienza con Eugenio Barba. Pian piano l'ho "tradita" - tradita bene, mi ha garantito Barba - ed è stato molto importante l'incontro con Kantor. Poi quello con Pina Bausch. Che parla molto e bene di ciò che sta accadendo, sa articolare incubi personali e collettivi."
Quanto ha influito l'esperienza spagnola?
"Mi ha segnato profondamente. Mi ha anche alleggerito: in Spagna se non hai senso dell'humor sei perduto. E' il loro modo di reagire agli anni della dittatura. Io l'ho conquistato seguendo Els Comediants, La Fura dels Baus, Antunez, Almodovar."
E adesso il ritorno con "Marta H", che assomiglia a una provocazione.
"Amo molto il teatro, però talvolta non riesco a dire quello che vorrei con gli strumenti teatrali. Allora nasce il discorso del teatro nel teatro, del tentativo di distruggere il teatro, conoscendolo, naturalmente. La regia mondiale vuole sempre distruggere il teatro, cercare altri spazi. Mi rendo conto che spesso queste sperimentazioni danno fastidio al pubblico, ma si cerca sempre di creare partecipazione. Si dice che il teatro sia una cerimonia, un rito, forse è anche un gioco. Quando ho visto le Saline, ho pensato: come riuscire a far star bene il pubblico e nello stesso tempo evitare il clima di mondanità? Non avevo messaggi in bottiglia, ma volevo creare un clima di concentrazione, senza ricorrere ai metodi drastici del primo Grotowski o di Barba, che costringevano il pubblico in un recinto. Io voglio molto pubblico." […]

L'UNIONE SARDA, lunedì 4 maggio 1998

Walter Porcedda
HELLZAPOPPIN E GODOT
UNA CARRELLATA DI QUADRI POETICI E DIVERTENTI

Allegro e caotico, frizzante e scoppiettante. Tenero e provvisorio. Visionario come certi spettacoli spagnoli ai quali comunque guarda con affetto e ammirazione: è "Marta H", allestimento teatrale prodotto dal centro Akròama, andato in scena con ottimo successo di pubblico nei giorni scorsi alle Saline, che segna il ritorno, dopo moltissimi anni di silenzio, di un regista di valore come Pierfranco Zappareddu, padre o fratello maggiore di tanta parte della sperimentazione sarda. Autore di spettacoli e regie negli anni settanta, […] Zappareddu ha ritrovato finalmente la strada del palcoscenico con un lavoro di bella presa. Dall'apparenza approssimativo e quasi abbozzato, "Marta H", pur nella sua lunghezza (oltre due ore e trenta) si segue con curiosa voglia di scoprire. Come fogli disegnati da una mano veloce e scartati in fretta dall'albo di schizzi di un pittore, scorrono i diversi quadri di questa sorta di divertente e inesauribile Helzapoppin sempre teneramente in bilico tra danza e teatro. Una lunga e sterminata teoria di numeri prodotta a getto continuo, da una compagnia che, in attesa del suo regista di nome Godot, prova casualmente un quadro dopo l'altro. […] Ne vengono fuori dei quadri assolutamente deliziosi come quello della danzatrice del ventre, scene da una deposizione blasfema che sembrano rubate ai Fura, una danzatrice davanti a uno specchio mobile che riflette sala e palcoscenico in un unico colpo d'occhio. Ovviamente non sempre tutto fila liscio, e sfasature e smagliature, qua e là fanno capolino. Il ritmo è talvolta carente in alcune parti e gli attori, dodici giovani non professionisti (tranne la brava Rosalba Piras) sono chiamati a un compito difficile che assolvono con una grande dose di passione e volontà. Ma si tratta di poca cosa davanti a uno spettacolo che comunque sia conquista e disarma per la sua poetica confusione. C'è un'aria di felice leggerezza, di salutare ironia e autoironia che fanno bene al cuore. […]
LA NUOVA SARDEGNA, 30 aprile 1998

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